Come noto al folto pubblico di miei lettori, ogni anno scrivo un racconto di Ferragosto insieme al mio nipotino. I primi anni mi forniva solo degli spunti e poi io scrivevo il racconto. Mi suggerì di scrivere di un tronco che parlava con una mensola vantando antenati comuni o, essendo io vegano, di un gatto che mangia il tofu. Da ognuno di questi spunti ebbe origine un racconto di gran successo.
Alessandro, mio nipote, ventunenne, aveva deciso di partire per Capo Nord con tre amici.
“Perché proprio Capo Nord?” gli chiesi, perplesso per la difficoltà del viaggio.
“Perché se non lo facciamo adesso, a cinquant’anni non ce la faremo più.”
Una coltellata. Io, cinquantaseienne, ancora scattante, con gambe solide, cosce muscolose e braccia toniche, come potevo tollerare un insulto del genere? Saltellai come un puglie dei pesi leggeri. Ero davvero in forma smagliante!
Così nacque il piano. Con la scusa di -dare un’occhiata alla macchina-, individuai un piccolo spiraglio, la mia occasione!
Poi, mi feci mandare -solo per curiosità- il programma del viaggio: tre settimane perfettamente organizzate, tappe, dormitori, campeggi, persino una preliminare -prova di carico dei bagagli-
Il giorno della partenza mi appostai. E, quando ormai pronti, i ragazzi si rilassarono per un attimo, approfittai della loro distrazione ed entrai nel bagagliaio.
Non fu facile: ore di sballottolamenti, ma la sorpresa valeva la pena.
Dopo cinque ore di viaggio, alla prima sosta, balzai fuori.
Le loro facce! Contratte in una smorfia che qualcuno avrebbe scambiato per rabbia, ma che io riconobbi come pura felicità.
“Zio, come ci sei entrato lì dentro? E le nostre borse?”
Confessai candidamente di averne buttata via qualcuna.
“Non vi preoccupate! Ai miei tempi si partiva con due magliette e un costume!”
“Zio…, noi andiamo a Capo Nord. Fa freddo, altro che costume…” Alessandro era viola, certo non per il freddo ma per l’entusiasmo di vedermi.
Rivendicai subito il posto accanto al guidatore, visto il mio mal d’auto, facendo sloggiare quello dei tre che, con un sorteggio, aveva vinto il posto migliore.
Poi estrassi dalla tasca una cartina cartacea e, con aria solenne, proibii l’uso del GPS.
“Ai nostri tempi bastavano le cartine. Il difficile era solo richiuderle! E poi queste strade sono tutte uguali: montagna a sinistra, mare a destra, non ci si può sbagliare!”
“Zio, il mare non c’è per chilometri…”
Ma, ancora storditi dalla -gioia- di avermi con loro, acconsentirono.
Tre ore dopo ci ritrovammo in un villaggio di pescatori, circondati da uomini con stivali fino al ginocchio che ci offrirono aringhe sotto sale. I ragazzi mi guardavano come si guarda un pirata che ha appena affondato la nave. Il pirata, ovviamente, concesse il ritorno ai cellulari.
Durante una sosta li provocai, “Dobbiamo dimostrare che il fisico regge!” Li trascinai su per un promontorio per ammirare il panorama. Dopo dieci minuti, ero a terra, ansimante, cercando ossigeno a quattro zampe e con il cuore che faceva le capriole.
“Zio, te l’avevamo detto che era impegnativo…”
“Macché! È solo un piccolo affanno da riscaldamento!” ribattei, mentre perdevamo il traghetto per le isole Lofoten.
Qualche giorno dopo, arrivato il freddo più intenso, Alessandro si rese conto che i suoi vestiti termici erano spariti.
“Zio… non è che li hai buttati tu, quando ti sei infilato nel portabagagli?”
Abbassai lo sguardo.
Per farmi perdonare gli comprai un maglione acquistato in un negozio di souvenir, con un cervo enorme sorridente e fosforescente. Alessandro cercò in ogni modo di coprire quell’orrendo cervo quando faceva le foto da inviare a casa.
Ad un controllo, non sapevo esistessero ancora le frontiere, per alleggerire l’atmosfera dissi a una guardia.
“Ah-ah! Guardi, guardia, in realtà siamo in cinque: c’è pure un clandestino nel bagagliaio!”
La guardia non rise. Ci fece scendere tutti, controllò ogni borsa, e ci tenne un’ora sotto interrogatorio, smontando il veicolo pezzo per pezzo.
I ragazzi mi fissavano muti. Io mormorai: “L’ironia nordica non esiste più…”
In un campeggio, decisi di mostrare la superiorità della cucina italiana. Pasta per tutti! Ma confusi la bottiglia dell’acqua con quella dell’acquavite locale e gli spaghetti iniziarono a flambare in padella. I ragazzi guardavano il fuoco salire.
“Zio, ma che stai facendo?!”
“Rivisitazione moderna: pasta flambé alla scandinava.”
Andammo a dormire a stomaco vuoto, avvolti da vapori alcolici di acquavite.
Ogni tappa era una catastrofe. Tende montate al contrario, torce scariche perché lasciate accese per testare la batteria, scarponi scambiati con pattini da ghiaccio con un rigattiere locale. Io ridevo. Loro no.
Tre settimane dopo, a Roma, al momento dei saluti, mi parve giusto tentare un bilancio del viaggio.
“Ammettetelo,” dissi, “senza di me, non vi sareste divertiti. Con me avete vissuto una vera avventura!”
Alessandro, esausto per le mie trovate, mi fissò.
“Zio, una cosa non ho capito bene. Come hai fatto ad entrare nel bagagliaio.”
Glielo mostrai: mi raggomitolai, e entrai di nuovo.
“Visto? E’ questione di tecnica. I giovani devono imparare dai più grandi!” Dissi trionfante.
-Toc-! Il bagagliaio si richiuse.
Ora sono qui dentro, urlo di aprire, batto i pugni, ma sento solo un parlottare concitato. Dal foro di areazione vedo i loro volti…, poi un tappo che chiude il buco.
Arghhhhh
FINE
Giovanni Lupi
5.9.25
Nota Postuma: lasciate che i giovani facciano le loro esperienze. Voi non siete i vostri ricordi, ma quello che siete oggi: una persona nuova. Ogni giorno.
“Il Porto di Nerone aveva due bracci, come un uomo in piedi che cinge il mare per proteggere le barche che entrano, uno di Levante, di cui rimangono due scogli, uno di fronte all’altro....”
Un volontario di una meritoria associazione guidava una visita culturale sui Porti di Anzio, il Neroniano e l’Innocenziano. Quell’uomo era un eroe moderno, organizzare una visita culturale ad Anzio, luogo noto per gli strafogamenti di pesce, pizza e gelato come non ci fosse un domani.
Quando nacqui avevo le mani secche
e mia madre mi mise la crema, sopra
allora c ‘era gente che non stava sempre al cellulare
tornai dalla clinica avvolto in una copertina
allora c’era gente che come unico amico non aveva -il vicino di abbonamento della Roma-
“Ma è lui?”, “Ma povero…”, “Tutto tranne quello vorrei.”
Il fruscio dei commenti avvolse il condominio di via Fezzan. Paolo era stato medico, giornalista, sindacalista e tanto altro, eppure era toccato anche a lui. Quella malattia il cui solo nome fa paura: Alzheimer. Sembra il nome di uno spietato generale nazista che non fa prigionieri. Infatti, anche l’Alzheimer non fa prigionieri, si peggiora di giorno in giorno, “sino a non ricordarsi come si beve o si mangia”, ricordò uno dei condomini il cui padre aveva vissuto la stessa esperienza. Alle parole “beve” e “mangia” il condomino sgranò gli occhi, a spaventare.
Era un amore scomposto il suo
in direzioni errate
si perdeva dove non avrebbe dovuto
ma gli dava vita
una vita che ogni mattina
lo faceva alzare.
Per inseguirlo
l’amore guidava
lui dietro
lo faceva vivere
che non di fermava mai.
Ma un amore scomposto
“non sta bene”
“non si fa”
e allora smise di seguirlo
e si fermò nel letto
guardando il mare.
“Vieni!”
Lo chiamò l’amore scomposto
che tanto aveva fatto
ma lui non lo sentiva
e rimase nel letto
mentre davanti a lui
il mare
smise di muoversi
e divenne
cielo.
(Giovanni Lupi 1.4.23)
Non so vivere per me stesso.
Ho cercato una felicità conservatrice
aiutare gli altri
sistemargli lo stuzzicadenti in gola
perché non li strozzasse
senza toglierlo
per sentirmi utile
senza lasciarli da soli
per sentirmi Dio.
Pescati da corpi doloranti
persi in tre chili di liquami
issati su una barca di mondo
a largo tra bellezza e dolore
nascemmo
imperfetti
mentre due occhi di sole ci guardavano.
Che inganno furono quegli occhi.
Nascosero ogni nostra imperfezione
e credemmo non servissero
pillole per vivere, pillole per morire
continui sforzi, continui sterzi
e credemmo che mai sarebbe accaduto
non esser compresi ed amati.
Così mettemmo la luce negli occhi degli altri
in un silenzio fragile come il vetro,
concedemmo spazio ai sogni asfissiando la realtà
finché, senza colpa, l’uno verso l’altro
nel continuo scavare e scalare
esplodemmo in pus
ogni imperfezione nascosta
e tra sorpresa e dolore
scoprimmo che ci sono fiori
belli solo da lontano,
come i tulipani.
La vita è una cosa buffa
tanto ci si dà importanza
ma l’unica cosa seria
davvero
è accogliere le imperfezioni
con pazienza
camminando verso la morte con le mani in tasca.
(Giovanni Lupi 7.5.22)
“Ti amo come sei”
disse lei all’Esaedro
con una frase che tanto nei millenni
è parsa scivolosa,
ma stavolta no, era salda con i rampini.
Il dolore mi saltò cavalcioni,
dondolava sulle spalle
come fossimo compagni di giochi.
Traversammo mari, monti e luoghi comuni,
cercammo un mondo che fosse libertà,
ci tenemmo lontani dalla strada segnata
e grande fu la sorpresa
di una Terra Nostra,
fertile di baci appiccicosi al succo di fico,
splendente del tramonto di tende
scolpita da minuti colpi e terremoti.
Era una donna ordinaria, come posta elettronica usava Virgilio, acquistava sempre il cellulare Samsung modello base ma, soprattutto, inviava sempre le stesse emoticon: una faccina con sorriso se qualcosa era andato bene, una faccina con la lacrima se qualcosa era andato male.
Facemmo terra arsa
per non poter uscire,
al centro respiravamo i nostri respiri
nulla c’era sopra, nulla c’era sotto
quel cerchio con noi al centro.
Ma c’è quest’amore,
o è solo l’ombra dei sogni?
immaginato
atteso
ma solo ombra.
Mi era finita la poesia,
ce l'avevo,
lo giuro,
mi veniva naturale,
non so se valesse,
ma tanto la poesia non vale,
mai.
Ma anche quella poesia
senza valore come tutte,
me l'ero persa,
smarrita.
Alla denuncia di smarrimento,
il poliziotto, smarrito,
"si può smarrire solo quello che vale,
non una poesia",
così l'ho cercata, solo.
In cielo uccelli in bozzoli di mascherine,
in terra gente che camminava dentro un muro,
nell'aria un virus di idee stantìe.
Ero rassegnato,
senza poesia si può vivere,
lo fanno in tanti,
lo fanno in quasi tutti.
Quando la vidi.
Era la mia poesia,
arrancava,
cavalcata dalle Regole,
per il bene di tutti.
Le Regole la spronavano a stare immobile
"guai!" e giù un colpo,
"guai!" e giù un altro colpo.
La poesia capiva solo che le regole erano "guai!",
ma obbediva, non c'era altro da fare.
"Perchè mi hai perso?"
mi chiese con lo sguardo silente.
La guardai come un tesoro ritrovato
che non potevo afferrare
avvolto in un bozzolo di mascherine.
Mi avvicinai a fatica,
mi sussurrò a fatica.
"da ogni bozzolo nasce una farfalla".
che banalità pensai,
ma avevo così bisogno di banalità
che una lacrima mi bagnò
la mascherina.
(Giovanni Lupi 30.10.20)
Questa è la ballata di chi scrive senza essere letto
neanche gli amici lo leggono,
neanche chi dice di averlo letto lo legge,
neanche il correttore automatico di word lo legge,
non lo legge proprio nessuno.
Ogni volta che sorride
mi regala 10 anni in meno,
i ricordi vanno a sbattere
lì dove tutto è nuovo,
"carica la pellicola
e proietta questa vita",
Si baciarono in un prato. Erano usciti con una scusa, una di quelle legali.
A sedici anni hai voglia di un bacio, anche dopo, ma a sedici anni un bacio è tutto.
e’ il momento
di regalare guanti in lattice
e la nostra lontananza
di poggiare la spesa a terra
e andare via
-ci riabbracceremo papà-
ma aspetta un’ora
prima di prendere la busta
-sì, ci sono anche le lingue
di pizza rossa-
è il momento
di regalare la nostra paura
e crema per le mani
-mille volte devi lavarle-
e poi sperare,
perché ci rivedremo tutti
come prima
che quel tanto che avevamo
ci pareva normale
(Giovanni Lupi – 10 marzo 2020, ore 7.11)
diciamocelo
siamo un disastro
uno per uno
due per due
siamo figli di errori
nipoti di errori
stirpi di errori sino alle scimmie
Con una siringa
mi succhiò la voglia di vivere.
-L’amore è così- disse
-sembra che ti dà e invece ti toglie-.
-Allora non lo voglio-, provai.
-Non ti muovere
sennò viene il livido-.
E’ Ferragosto, Feriae Augusti e, per motivi noti a tutti, si sta in famiglia, familia.
“Ma che roba!” Il pater chiude il giornale sotto l’ombrellone, familias.
“Che succede?” Chiede la moglie del pater che quindi è la mater.
Fece la sua prima gara di nuoto a dieci anni. Premiarono i primi tre classificati, poi altri, tra cui lui, -a seguire-. Per non dire settimo, ottavo, ultimo persino. Dopo i primi tre, gli altri erano -a seguire-.
Per le successive 72 gare, in 15 anni di nuoto, arrivò sempre -a seguire-.Così quando nacque sua figlia non potè che chiamarla Asseguire.
Aveva una intelligenza sintetica e intuitiva, non approfondiva nulla che non lo interessasse realmente, e realmente nulla lo interessava. A parte le donne, che gli parevano un buon modo per passare il tempo, meglio delle Serie Tv e della Playstation cui si dedicavano i suoi amici più colti.
“E’ più offensivo -vaffanculo- o -li mortacci tua-?”
Sembrò un post come tanti, uno di quelli che raccolgono una decina di commenti dagli amici più intimi, in cui si discute della soluzione di piccoli problemi quotidiani, e basta. Ma non fu così, affatto.
Scrivevo solo di argomenti tristi, guerre, morti, politica, e quindi ero sempre triste. Un noto autore, noto a me e ad altri tre, mi suggerì. “La ricetta della felicità è scrivere di argomenti felici, armistizi, nascite, sport.” E così feci. Ci tenevo davvero ad essere felice.
Fu rumore,
ci parlammo senza ascoltarci
come sempre avevamo promesso
e l’assenza di armonia ci stordì,
fino a cadere.
Ci bagnammo nello stesso fiume,
nel rancore che solletica i piedi, e poi li gela
nell’ingratitudine che colpisce, e scappa
e fradici aspettammo un sole
che mai arrivò.
Un tempo
non avevamo bisogno
di vederci in ginocchio
per misurare amore e potere,
eravamo certi
che la naturale parabola
verso la noia
non ci avrebbe riguardato.
E ora siamo qui
a parlare di noi
che tutto il mondo avevamo in pugno
di fronte a uno sconosciuto
che colpisce con un bastone
la nostra collezione di cristalli,
poi guarda l’ora
e dice profondo
“a mercoledì prossimo, allora.”
Andiamo via insieme,
vicini,
perché non possiamo farne a meno.
(Giovanni Lupi marzo 2018)
Mi avvicinai lento,
la lingua uscì intrepida
in cerca della tua
e fu quel contatto umido
che da sempre chiamano bacio.
Era stupendo il paesaggio della mia vita,
irradiato di sole che mi bagnava a sazietà,
il sorgere e il tramontare erano fonte di gioia.
Vivo come ci sia sempre tempo
come possa abbracciare chi amo secondo voglia
come se lacrime e riso siano infinite.
Caracollava di cellulite,
quintali di cibi mal digeriti,
budini di carne che neanche un Bimby
avrebbe osato affrontare.
A quindici anni avvertii la sua virulenta invadenza per la prima volta. Le ragazzine dopo un “sei troppo infantile” mi abbandonavano a me stesso, solo, ad ascoltare le canzoni di cantautori depressi e depressivi che all’epoca, per motivi inspiegabili, andavano di gran moda.
Il nostro amore marcì come una prugna,
lasciando polvere blu nei nostri cuori
e rimpicciolendo quando così gonfio sembrava.